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I pupi epici di Domenico Pinto

I pupi epici di Domenico Pinto

Raffaele Nigro (da “La Gazzetta del Mezzogiorno” - 13 agosto 2012)

Ci ha impiegato anni, ma alla fine ha ottenuto dalla Curia vescovile di Taranto il permesso di acquistare uno degli antichi magazzini sottostanti il palazzo Episcopio di Grottaglie, uno spazioso ambiente scavato nel tufo, e lo ha trasformato in laboratorio e sala di esposizione delle proprie ceramiche. Parlo di Domenico Pinto, un maestro della terracotta che incontro nella cittadina ionica in occasione di uno spettacolo teatrale dedicato agli Svevi e interpretato da Alfredo Traversa e Roberto Burano.

La rappresentazione ha luogo nel cortile del castello e dai tagli di luce e gli occhi di bue emergono tra gli attori alcune delle opere prestate da Pinto per un accenno di scenografia. Sono due grandi maioliche raffiguranti Federico II e Bianca Lancia. L’imperatore è ritratto in età giovanile, chiuso in un abito di maiolica ingobbiata e invetriata color panna, una veste abbellita da profili in oro zecchino e da un fregio della sottoveste che sciorina una serie di losanghe arricchite da fiori. Il rimando immediato della figura è alla scultura gotica, il corpo nanoide, abbozzato e deforme, il collo lungo e sottile e la testa sproporzionata rispetto al resto della figura. Il pupo ha gli occhi persi nel vago e le mani appoggiate sul ventre a sorreggere un falchetto e uno scettro. Ovviamente è biondo e in testa porta un copricapo più simile a una mitria che a una corona. La seconda figura ha le stesse dimensioni, stessa fattura e foggia, un mantello dorato puntigliosamente damascato dalle cui maniche escono le mani che reggono uno scettro a forma di carciofo. La veste è bianca a grandi fiori azzurri e sul collo di cigno un capo ancora una volta sproporzionato ma grazioso ha uno sguardo malinconico. Qui si tratta di Bianca Lancia, la più bella e più sfortunata delle amanti di Federico, la madre di Manfredi di Svevia morta nel castello di Gioia del Colle e sposata soltanto poco prima di morire.
Mi piace definirli pupi epici, perché richiamano una tradizione storica del nostro mondo e rinviano a vicende avvolte dalla grandiosità e dalla tragicità sia collettiva che individuale. In queste opere emerge tutto ciò che Domenico ha imparato e insegnato presso l’Istituto d’Arte di Grottaglie, ciò che è riuscito a rubare al suo maestro Ciro La Grotta.
La Grotta era un capasonaro, realizzava orci per olio e vino di dimensioni gigantesche, orci verniciati di ocra e che un tempo venivano ammassati sulle terrazze del quartiere delle ceramiche ma che oggi vanno scomparendo. Perché hanno vinto legno e plastica, perché richiedono fatica e capacità ingegneristica non indifferenti.

Maestro e guida

È un carattere semplice e affabulatore Pinto, l’ho appena conosciuto e già mi fa strada verso il laboratorio, mi spiega come sia stato necessario staccarsi dalle forme tradizionali del vasellame locale, inventarsi qualcosa che pur rispettando il codice dell’artigianalità volasse verso l’innovazione e l’arte. “Sono partito dalle mie letture - mi spiega - io sono appassionato di storia. Leggevo dei miti mediterranei della grande madre, frequentavo lo studio di Raffaele Spizzico ed ero vivamente toccato dalle sue Pomone, le divinità della cultura premagnogreca”. Nel 1999 infatti aveva realizzato a Grottaglie una mostra su “La Donna e il Mito”, l’aveva ribattezzata “Le Muse del Plenilunio” in una mostra a Mola di Bari. Le madri arcaiche, ricche di oggetti e di simboli: uccelli, spighe, pomi, e che si erano nel frattempo incontrate con la tradizione cristiana. Nel 2003 avevano dato vita presso l’Incoronata di Curtatone alla mostra “Maria Madre e Donna tra Terra e Spirito”. Ripresa in Santa Maria di Cadossa a Salerno, in “Donne e Madonne”.

Ma la passione di Pinto restavano Federico lo Svevo e il mondo medievale. Troppe letture, troppi miti sparsi in Puglia e troppe miniature sbirciate su codici antichi. Aveva aperto il capitolo nel ’97 presso il trullo Sovrano di Alberobello, con “Le ceramiche di Federico II”. Un successo. Di critica e di vendite. Seguite da “Le trame dell’Impero”, a Potenza e Minervino Murge e infine da “Le donne di Federico”, a Oria. Si osservino l’eleganza compositiva e la ricchezza decorativa nelle poche opere rimaste in bottega e nel piccolo catalogo curato da Daniela De Vincentis. Opere che Pinto affida oggi alla figlia Paola, sua allieva e collaboratrice. “Ma io ho continuato a leggere - mi racconta ancora mastro Domenico, mentre ci aggiriamo attorno ai tavoli su cui campeggiano le sculture - questi cavalli di Troia sono il simbolo di Ulisse e io ne racconto le vicende, il coraggio, i sogni. Ora guardo all’Odissea e non è escluso che domani mi rivolga alla Divina Commedia o a storie del Sud”. Come ha già fatto coi nobili salentini di età medievale Guglielmo Tarallo e Tommaso da Oria e Tommaso da Salice o Orlando Maramonte e con i Marescialli Jacopo e Niccolò. Terrecotte ingobbiate e invetriate con lustri e ori in un neogotico di assoluta raffinatezza.